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La marcia di Radetzky

Questa storia inizia con un salvataggio, più precisamente con quello dell’imperatore Francesco Giuseppe I alla battaglia di Solferino ad opera dello sloveno sottotenente di fanteria, discendente di contadini del villaggio di Sipolje, Joseph Trotta che, buttatolo a terra, riceve un proiettile destinato all’imperatore, guadagnandosi così la sua eterna gratitudine (insieme al grado di capitano e all’Ordine di Maria Teresa) e diventando il barone Trotta von Sipolje. Dopo aver salutato per l’ultima volta il vecchio padre, ex-brigadiere e ora guardiano del parco del castello di Laxenburg, aveva sposato la nipote del suo colonnello. Era poi invano ricorso all’imperatore in persona per rimuovere da un manuale scolastico un brano di lettura sulla battaglia di Solferino e sull’azione da lui compiuta per salvare Francesco Giuseppe, patriotticamente “gonfiato”. Egli allora si congeda dall’esercito con il grado di maggiore e va a lavorare nella tenuta di suo suocero dove, dopo aver assistito al funerale del padre e alla morte della moglie, rimane assieme al figlio Franz. Egli poi manda quest’ultimo in collegio a Vienna e dispone perché studi legge. Costui, procurato all’eroe di Solferino uno splendido ritratto, opera dell’amico Moser, diventa commissario distrettuale a W. e vede crescere il figlio, Carl Joseph, che, tra la scuola dei cadetti di cavalleria e le vacanze estive a casa del padre (monotonamente caratterizzate da esami sulla sua preparazione culturale, pranzi domenicali con sempre lo stesso menu serviti dalla signorina Hirschwitz sulle note della “Marcia di Radetzky”, cordiali chiacchierate con il maestro Nechwal, direttore della banda militare esecutrice della stessa, e incontri di focoso amore con la moglie del brigadiere Slama), diventa sottotenente e, dopo aver rincontrato con il padre lo squattrinato pittore Moser a Vienna e aver fatto le condoglianze al brigadiere per la moglie defunta (ricevendo dalle mani di costui le lettere scrittele), prende servizio in caserma a Moravia, ottenendo un attendente, Onufrij, la possibilità di partecipare alle serate degli ufficiali (prima il circolo e poi il bordello di zia Resi) e un amico, il medico del reggimento Max Demant, nipote di un imponente oste ebreo e sposato con una donna che non lo ama, il quale però muore in un duello insieme al suo avversario, il capitano Tattenbach, reo di aver malignato sul fatto che, all’uscita dal teatro, costei si sia fatta accompagnare a casa da Carl Joseph. Quest’ultimo, sentendosi tremendamente in colpa, si fa trasferire alla frontiera, nel battaglione dei Cacciatori, dove conosce il conte Chojnicki, bizzarro riccone amante delle feste e dell’allegria (per le quali è sempre pronto ad offrire il suo castello come sede) che continua a ripetere che la fine dell’impero è vicina, come quella dell’imperatore, turbando fortemente il padre di Carl Joseph, che è andato a trovare quest’ultimo a seguito della morte del vecchio domestico, Jacques. Dopo aver conosciuto i brividi del gioco d’azzardo e aver sperimentato sulla sua pelle il suicidio di un conoscente per i debiti provocati da esso e il rischio di esser denunciato lui stesso per il medesimo motivo (prontamente fugato dall’intercessione del vecchio padre presso l’imperatore e dalla generosità di costui), il giovane sottotenente intrattiene un rapporto di amore con una donna più vecchia di lui ma ancora bella, la signora von Taussig, e viene incaricato di controllare, intervenendo con le armi se necessario, uno sciopero di operai della manifattura delle setole: il giovane dà ordine di sparare alla folla, che grida e agita i pugni, ma viene colpito alla testa da un’arma. Nel frattempo il padre è invecchiato e ha trovato un amico e compagno di scacchi nel dottor Skowronnek, che lo convince a lasciare maggior libertà al figlio, dopo aver ricevuto da questo una lettera dove si richiede la sua approvazione perché possa lasciare l’esercito. Il giovane Trotta non fa però in tempo a godersi la sua vita nuova, come stipendiato del conte Chojnicki, che subito scoppia la Grande Guerra (in seguito all’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo) ed è richiamato. Muore sotto il fuoco nemico, mentre cerca di prendere acqua da un pozzo per i suoi soldati, assetati. Il vecchio padre, Franz von Trotta, si reca a Schönbrunn, dove dalle campane apprende della morte dell’imperatore e torna a casa, affranto. Lì, si corica e spira. Il dottor Skowronnek, fedele amico, dopo aver assistito al suo funerale, va al caffè dove solevano giocare a scacchi ogni giorno e inizia una partita contro se stesso, mentre la pioggia scorre sui vetri.

COMMENTO
Come nel caso della Signorina Else di Schnitzler, non avevo mai letto prima un romanzo di Roth, però (a differenza della Signorina Else) posso dire che questo mi è piaciuto abbastanza: nonostante in molti punti io abbia trovato il linguaggio usato un po’ complesso e mi sia capitato spesso, durante la narrazione, di continuare a leggere uno stesso periodo per più volte senza accorgermi di quel che leggevo, ho apprezzato lo stile raffinato e colto di Roth, che alterna lunghe descrizioni a riflessioni interiori presentando tuttavia un crudo susseguirsi di avvenimenti. Interessante la creazione di tre protagonisti, uno per ciascuna generazione dei Trotta: non facevo in tempo ad immedesimarmi in uno che Roth mi presentava il figlio (ammetto di aver provato un segreto piacere nell’aver conosciuto, anche se per poche pagine, l’eroe di Solferino mentre leggevo del fatto che il nipote non lo avesse mai conosciuto e di lui non avesse che un quadro). Riconosco che l’autore ha saputo rappresentare molto efficacemente l’inizio della fine dell’impero asburgico, ma non è riuscito ad intaccare la rispettabilissima “vecchia guardia” (l’imperatore e il suo salvatore): costretto a leggere pagine sugli sciocchi ufficiali pettegoli, sul bordello di zia Resi e sulla sala da gioco all’albergo Brödnitzer (oltre all’idiozia del giovane Carl Joseph) ho accolto con gioia il capitolo 15, per esempio, interamente dedicato alla figura di Francesco Giuseppe: un uomo vecchio ma intelligentissimo (molto più dei suoi ufficiali di stato maggiore) e che si finge vecchio anche nella mente per poter essere lasciato in pace; un uomo riconoscente, che sa di esser stato salvato da un semplice sottotenente con molto più fegato di coloro che l’avevano portato in prima linea. Spero solo che la penna di Roth si sia mossa su di un tracciato lasciato dalla figura reale dell’imperatore, perché ciò vorrebbe dire che anche in questo nostro mondo ci sono stati ottimi uomini.

Enrico Pinzoni, I B, a.s. 2012-2013

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