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Memoriale del convento

Josè Saramago, Memoriale del convento, Milano, Feltrinelli 2003, pp. 320. “La costruzione del convento di Mafra si deve al re Giovanni V, per un voto fatto se gli fosse nato un figlio, qui ci sono 600 uomini che non hanno fatto fare nessun figlio alla regina e sono loro a pagare il voto che si attacchino”: è con tante di queste pungenti e ironiche sentenze che Josè Saramago, Nobel per la letteratura nel 1998, descrive in modo incalzante la quasi leggendaria edificazione di un convento portoghese, intrecciando le vicende dei protagonisti della Storia, come il re Giovanni V e la regina Maria Anna, con le avventure di quelli che, attraverso le loro vite, hanno davvero fatto la storia, portandone il peso senza lasciare traccia. Sono così Baltasar e Blimunda, i cui destini si incrociano quasi magicamente: Baltasar è un ex-soldato che ha perso la mano sinistra in guerra, ed è soprannominato Sette-Soli; Blimunda, invece, è una giovane ragazza forte e misteriosa, figlia di una donna condannata all’esilio per stregoneria: è proprio all’auto-da-fè, cerimonia pubblica in cui veniva messa in atto la condanna da parte dell’Inquisizione, che Blimunda, guardando sua madre imprigionata, “girandosi verso l’uomo alto che le stava accanto, gli ha chiesto, Come ti chiami, e l’uomo ha detto con naturalezza, riconoscendo così il diritto di questa donna di fargli delle domande, Baltasar Matheus, mi chiamano anche Sette-Soli”. Così, da una semplice conversazione tra due sconosciuti, nasce l’amore tra Sette-Soli e Sette-Lune, come sarà chiamata Blimunda da padre Bartolomeu Lourenço de Gusmao, frate dalla mentalità originale e moderna. “Non chiediamo mai se ci può essere giudizio nella follia, ma diciamo pure che di matto ne abbiamo tutti una punta”: è così che Saramago pone l’accento sulla fantasiosa pazzia che caratterizza l’impresa cui si dedicheranno padre Bartolomeu, Baltasar e Blimunda: quella di costruire una macchina per volare, soprannominata con disprezzo l’”uccellaccio”. Lavorano duramente , finchè padre Bartolomeu dichiara che ciò di cui ha bisogno la macchina per librarsi nell’aria e contrastare la forza di gravità sono volontà umane: Blimunda, che, a digiuno, ha il dono di poter vedere attraverso gli oggetti della realtà materiale, dovrà raccogliere e imprigionare in una boccetta d’ambra circa 3000 volontà, ovvero delle “nuvole chiuse”, situate al centro dei corpi delle persone, che si staccano e volano in cielo in punto di morte. Tuttavia, quando la macchina sta per essere ultimata, Blimunda si ammala e Baltasar si dispera. Riesce a salvarla solo Domenico Scarlatti, musicista alla corte reale: quando si siede al clavicembalo per suonare nasce una “lenta, soave musica che a stento osa staccarsi dalle corde lievemente ferite, vibrazioni sottili d’insetto alato che, immobile, si arresta […]. Questo non ha niente a che vedere con i movimenti delle dita sui tasti, non è da loro che nasce la musica e come potrebbe, se la tastiera ha un primo e un ultimo tasto mentre la musica non ha fine né principio”; è proprio questa la medicina che Blimunda stava aspettando, e che opera in lei una quasi miracolosa guarigione. Ma nel frattempo padre Bartolomeu viene accusato di eresia; costretti a scappare, i tre mettono in moto l’uccellaccio: con una prosa che quasi sconfina nella poesia, l’autore ci rende capaci di immedesimarci nell’utopico sogno dei protagonisti, singhiozzanti di felicità nel vedere le proprie aspettative realizzarsi, “che gli uomini sono angeli nati senz’ali, è quel che è più bello, nascere senz’ali e farle crescere”. Atterrano sani e salvi quasi per miracolo, si accampano vicino alla macchina per dormire, quando padre Bartolomeu tenta di dare fuoco all’”uccellaccio”: poi, impazzito, fugge. Morirà a Toledo qualche mese dopo, senza rivedere né Baltasar né Blimunda: così, quella follia che fino a poco tempo prima l’aveva reso felicissimo, lo trascina alla fine nell’abisso della morte, avendolo portato a spingersi più in là di ogni altro uomo per cercare un sogno troppo lontano dai suoi contemporanei. Baltasar e Blimunda si trasferiscono a Mafra, dove si sta edificando un incredibile convento: Sette-Soli viene impiegato nella costruzione, e attraverso i suoi occhi riusciamo a scoprire non solo le difficoltà che comporta il lavoro, ma soprattutto quante umili vite siano spezzate tragicamente, solo per i capricci dei grandi della Storia. Quando il convento viene ultimato, “tutti si meravigliano per la grandezza smisurata della pietra, Così grande. Ma Baltasar mormora, guardando la basilica, Così piccola”. Il tempo passa, i protagonisti iniziano ad invecchiare felicemente insieme, quando Baltasar scompare; Blimunda lo cerca instancabilmente per nove anni, poi lo vede sul rogo in punto di morte, ma la sua volontà non si stacca dal corpo “e come avrebbe potuto, se alla terra apparteneva e a Blimunda”: è questo il loro ultimo incontro, a Lisbona, tra gli stessi acri e pungenti odori di quando si erano conosciuti, di quando avevano scoperto il vero amore, di quando avevano sognato di farsi crescere le ali per volare insieme. Marie Sophie Mourguet, a.s. 2012-2013, cl. II B

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